
Isole italiane, topi resistenti
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Una ricerca individua in sette aree insulari mutazioni genetiche che provocano resistenza ai rodenticidi
La resistenza ai rodenticidi, ovvero ai pesticidi utilizzati per eliminare o respingere la presenza dei roditori, è un fenomeno diffuso nelle isole italiane. È quanto emerge da uno studio, pubblicato su Science of the Total Environment, realizzato da un gruppo di ricercatori del Cnr-Iret e dell’Università La Sapienza.

Crediti: Rudolphous – iNaturalist – CC 0Rudolphous – iNaturalist – CC 0
Il topo: una specie invasiva
Quello dei topi è un problema pressante. Il topo domestico dell’Europa occidentale, Mus domesticus, è tra i mammiferi sinantropici (cioè che vive in ambienti con una persistente attività umana) più diffusi al mondo. La IUCN (Unione internazionale per la conservazione della natura) lo inserisce nell’elenco delle cento specie più invasive al mondo.
Come per molti altri roditori invasivi, l’impatto di questa specie può risultare ancora più critico sulle isole: predano specie autoctone (piante, invertebrati, uccelli e rettili endemici) alterando l’ecosistema; danneggiano le derrate alimentari e trasmettono zoonosi agli esseri umani. Per controllare le popolazioni di topi, vengono comunemente utilizzati rodenticidi anticoagulanti.
La mutazione genetica e le sue conseguenze
Ora la nuova indagine rivela che, in sette delle undici isole italiane prese in esame, i roditori hanno mutato il gene VKORC1. Sei di queste mutazioni non erano mai state registrate prima nei topi domestici, e quattro di esse non erano mai state trovate in alcun roditore.
Le mutazioni del gene VKORC1 conferiscono resistenza ai rodenticidi anticoagulanti, con la conseguenza che questi ultimi, per risultare efficaci, devono essere utilizzati in dosi sempre più elevate.
E qui la situazione si complica. Anzitutto, perché l’utilizzo di questi pesticidi può avere pesanti conseguenze sull’ambiente, avvelenando specie non bersaglio: possono infatti essere ingeriti accidentalmente da altri animali (invertebrati, rettili, uccelli e mammiferi), sia per consumo diretto delle esche sia per predazione dei roditori avvelenati. Queste sostanze possono inoltre accumularsi nei tessuti degli animali che li ingeriscono, anche a bassi dosaggi, e trasferirsi lungo la catena alimentare, raggiungendo concentrazioni elevate nei predatori apicali.
E possono, come dimostra la ricerca, favorire la selezione di individui resistenti, con l’innesco di un circolo vizioso: diminuisce l’efficacia dei trattamenti, aumenta l’utilizzo dei rodenticidi, cresce l’impatto sull’ambiente.
Per un futuro più cauto ed efficace
Gli scienziati coinvolti nello studio evidenziano la necessità di adottare un approccio più consapevole alla gestione dei roditori, soprattutto nelle isole, dove gli ecosistemi sono particolarmente vulnerabili alle perturbazioni esterne. Questo è possibile adottando misure di prevenzione come la corretta gestione dei rifiuti, la conservazione degli edifici e la promozione di metodi di controllo biologici, quali il ricorso a predatori naturali.
Oltre a suggerire l’utilizzo di rodenticidi di nuova generazione, con minore impatto ambientale, gli autori evidenziano che è strategico effettuare uno screening di resistenza: se prima di intraprendere qualsiasi intervento viene valutata la presenza di individui resistenti nella popolazione di roditori da controllare, sarà possibile scegliere il principio attivo più efficace e il dosaggio più adeguato, riducendo al minimo la quantità di sostanza da rilasciare nell’ambiente.